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SECONDO DOPOGUERRA A SALERNO : FATTI. VICENDE, PERSONAGGI, PROTAGONISTI DELL’ ORGANIZZAZIONE OPERAIA

Inviato da Angelo Orientale il

                   

 

 

 

 

Maggio 2008- Intervista di Piero Lucia al Senatore Gaetano Di Marino

( 26 marzo 1922- 28 febbraio 2011), a lungo, negli anni ’50, ’60, ’70 e ‘80 leader dei comunisti salernitani, registrata e trascritta integralmente.

 

 

      SECONDO DOPOGUERRA A SALERNO :

     FATTI. VICENDE, PERSONAGGI, PROTAGONISTI DELL’ ORGANIZZAZIONE OPERAIA.

 

La nascita, lo sviluppo, il consolidamento dell’organizzazione politico e sindacale proletaria a Salerno furono dovuti all’impegno, strenuo ed appassionato, di vari operai e lavoratori, di cui oggi si è perduta quasi del tutto la memoria e che invece svolsero, in quegli anni difficili, un ruolo importante e di primissimo piano in rappresentanza dei nuclei industriali che erano sorti nell’area urbana di Salerno.

Nel maggio del 2008 ebbi un incontro, lungo e affettuoso, con Ninì Di Marino, ed ho pensato, in questa circostanza, di attingere abbondantemente ai suoi ricordi personali per ritessere una trama su alcune delle principali vicende politiche e sociali di quegli anni e dei peculiari riflessi che si sono avuti nella nostra area territoriale. Una lettura che, in qualche maniera, arricchisce il quadro d’insieme consentendoci di decifrare l’anima dei fatti dal versante del ruolo di uomini semplici e combattivi, costruttori della democrazia, mai tuttavia assorti al clamore delle cronache. Un arricchimento testimoniale che trasuda di varie vicende individuali che poi convergono tutte nella storia più generale del movimento operaio e popolare. Seguendo la traccia della memoria di quegli anni difficili, va detto in premessa che Salerno era tutt’altra cosa rispetto a ciò che poi è diventata. La città finiva a Portanova. Tutta la zona fino alla Stazione era l’area industriale. La Rinaldi, tre o quattro Pastifici dove si producevano le paste di migliore qualità in Italia, poi il gasometro, a Piazza della Concordia. Nel mezzo la caserma ufficiali, che poi -verso la fine della seconda guerra mondiale- verrà quasi completamente distrutta da un bombardamento alleato. C’era infine la stazione. Ora questo ristretto nucleo industriale di Salerno aveva dei punti produttivi per quel tempo di un qualche rilievo. C’erano le concerie e i conciaioli, tra i quali si distingueva la figura di Raffaele Visconti, un operaio dal fisico grande e possente, bruno di viso e carnagione, pieno di energia, che per tanti anni aveva lavorato in fabbrica conquistando un grande prestigio tra gli operai anche durante il buio periodo del regime fascista, nel pieno della dittatura. Aveva senz’altro militato, all’inizio della sua esperienza lavorativa, nel sindacato della CGIL e poi aveva vissuto sotto il fascismo dovendo, come d’altronde tutti allora, aderire al sindacato di regime. Aveva comunque conservato un grande prestigio ed uno straordinario rispetto tra i suoi compagni di lavoro al punto da essere, anche nel periodo di blocco e scioglimento dell’organizzazione sindacale tradizionale, il vero, autorevole interlocutore del padrone per ogni vicenda relativa alla vita ed alle condizioni di lavoro in fabbrica. Raffaele Visconti, e con lui Carmine Laulonio, Siniscalchi, dal volto volpino e dalla struttura fisica più piccola e minuta, uomo acuto  ed intelligente, abituato a porre questioni problematiche nelle discussioni e, non di rado, ad indicare al contempo intelligenti soluzioni. C’erano poi altri operai, importanti punti di riferimento per i loro compagni. Al Cementificio lavorava Filippelli, di origine siciliana, protagonista nell’immediato dopoguerra di svariati importanti episodi di organizzazione. Il 15 luglio  del 1948, all’indomani dell’attentato a Togliatti, il Cementificio ebbe un ruolo negativo in quanto non partecipò, come ci si attendeva, nella misura auspicata, allo sciopero spontaneo di protesta contro l’attentato al leader comunista. Erano già giunti al concentramento alcune centinaia di lavoratori, ma era ben poca cosa rispetto alla gravità del momento e alle necessità dell’ora. I partiti di sinistra salernitani e l’organizzazione sindacale facevano molto affidamento sui rinforzi del Cementificio ed invece da quell’impianto si presentò, pressoché da solo, Filippelli. Allora il cementificio contava tra i 300 – 400 operai. Achille Signorile, quando la polizia iniziò a schierarsi, inviò il segnale così da accogliere le forze dell’ordine con una marea di fischi. La polizia non aspettava altro per effettuare la carica. Nel fuggi fuggi generale si cercava di sottrarsi alla caccia delle camionette. Ricorda Di Marino che Pietro La Veglia fu inseguito fino a Corso Vittorio Emanuele e là raggiunto, preso e picchiato selvaggiamente. C’erano poi le Cotoniere Meridionali, il principale complesso manifatturiero del tempo, l’industria tessile da cui vennero ciclicamente prelevati quadri destinati col tempo alla direzione del lavoro politico e sindacale. Tale ad esempio fu il destino di Alfonso Dragone, operaio tessile diventato poi funzionario di partito alla Federazione Comunista Salernitana. Con lui Barba, Maria Turco, poi sposa di Nino Turco, in seguito trasferitosi a Napoli. Si arrivò così, più avanti negli anni, a metà degli anni ’50, a quella grande e lunga battaglia contro la chiusura delle Cotoniere Meridionali. Una lotta che, per quel tempo, vide la manifestazione di un diffuso sostegno politico, sindacale, sociale ed istituzionale. La città si strinse generosamente attorno agli operai minacciati di licenziamento. Il Vescovo celebrò la Messa in fabbrica e dalla collinetta di rimpetto alle Cotoniere salirono Di Marino e D’Arezzo, allora Segretario della Democrazia Cristiana. I due Segretari del Pci e della Dc si strinsero la mano tra gli applausi degli operai, come a suggellare la piena intesa tra di loro e l’impegno comune in difesa del lavoro. Tra i panettieri c’era Alberto Pappalardo, del Centro Storico. Gli scioperi dei Panettieri in quel tempo erano terribili, data l’importanza decisiva del pane per l’alimentazione della popolazione. Questi personaggi erano i capi di un nucleo operaio piccolo ma significativo e si trattava di compagni di grande prestigio. Dopo il referendum del 1946, ci fu l’impegno a favorire l’elezione di Raffaele Visconti al consiglio Comunale. Tutto sembrava risolto, quando sorse il problema, al momento insormontabile, che Visconti non sapeva né leggere né scrivere. Allora ci fu chi si mise ad aiutarlo almeno a tracciare la propria firma. Bastava ciò, questo piccolo accorgimento, per superare il problema. Visconti, Filippelli, i conciari, i lavoratori  dei mulini abitavano, in buona parte, alle case Popolari, di fronte al vecchio Stadio “Vestuti”. Case popolari costruite dal fascismo e che avrebbero dovuto essere assegnate agli operai. Un’area, quella delle Case Popolari, destinata perciò col tempo a diventare area rossa, con attivisti ed elettori di Sinistra. Quest’insieme di rapporti politici ed umani erano particolarmente importanti. Si creava una relazione ed una fervida dialettica, ed anche una crescita comune tra questo nucleo operaio, alcuni intellettuali, fasce del ceto medio e giovani studenti che iniziavano ad orientarsi a sinistra. L’insieme di queste forze, di diversa estrazione e provenienza, fu il nucleo promotore che diede vita al movimento operaio del periodo dell’immediato  secondo dopoguerra e degli anni 50 e poi 60.  C’era inoltre una forte presenza socialista, che aveva come leader indiscussi uomini di grande profilo come Luigi Cacciatore e suo fratello Cecchino, molto attivi e presenti, assai vicini ai comunisti. Era il tempo in cui si dibatteva molto sulla necessità di un’unica forza della sinistra, argomento che ciclicamente riappare e si ripropone, con maggiore o minore intensità, forza e speranza. Quando si scendeva dal Municipio ci si vedeva Cecchino, Visconti, altri operai. Là ci s’incontrava e si discuteva animatamente la sera fino a tardi. Un’altro organismo assai importante era il Consiglio delle Leghe, luogo ove si riunivano, con frequente periodicità, i rappresentanti delle diverse aziende. Allora l’organizzazione sindacale era, naturalmente, ancora allo stato grezzo e assai approssimativa. Il Consiglio delle Leghe era per così dire una specie di “Parlamento Operaio”. L’organismo si riuniva alla Camera del Lavoro, allora collocata di fronte alla statua di Giovanni Amendola, nei pressi delle attuali Poste. E in genere succedeva che a quelle assemblee, non di rado vocianti, confuse ed animate, partecipassero, sospinti dalla curiosità, gruppi di giovani che erano stati attratti dal movimento socialista e comunista. Si seguivano con attenzione i dibattiti nei quali, puntualmente, l’estremista di turno esplicitava tutte le sue perplessità sull’inutilità della lotta democratica e di massa proponendo forme di azione più estreme quali lo sciopero totale nei servizi di erogazione dell’acqua e del gas, e magari del pane. Queste alcune esperienze iniziali di vita democratica. Poi sopraggiunsero le prime lotte in difesa dell’occupazione. In un quadro di divisione secca dell’Italia in due, l’attività dei mulini salernitani procedeva piuttosto bene. I pastai ed i mugnai salernitani fornivano quasi tutta l’Italia Meridionale, Il Nord era autosufficiente e stava per i fatti suoi. Le forze della sinistra furono impegnate duramente soprattutto a fermare l’ondata di licenziamenti che si stava preparando nei vari settori produttivi e che sfociò in particolare nella grande vertenza delle Cotoniere, ove erano stati preannunciati i licenziamenti tra tutti più massicci. La Scaramella fu occupata. Il Partito, assieme al Sindacato, organizzava direttamente il sostegno agli operai in lotta. Lucia Di Marino, Mary Chieffi e altre compagne andavano in fabbrica a portare di nascosto dalla polizia il cibo per aiutare gli operai nella resistenza. Le prime esperienze di lotta e di impegno politico e civile anche di donne che si erano schierate a sinistra. Queste le figure di un qualche rilievo di quel periodo. E, per l’essenziale, il quadro della Città di Salerno. Appena fuori dal capoluogo, a Vietri sul Mare, “la Stalingrado salernitana”, era allocata la Vetreria Ricciardi, 400 operai, tra i quali primeggiava la figura di Arturo Belmonte, piccolo e minuto ma con un’intelligenza ed una capacità politica di prim’ordine. Quando prendeva la parola, nelle riunioni di Lega o di Comitato federale, centrava sempre il cuore dei problemi, anche nelle occasioni in cui si discuteva di temi rilevanti di politica internazionale. Dati i tempi, non poteva naturalmente possedere una grande cultura, ma aveva un intuito politico straordinario. Al suo fianco D’Arienzo, un altro operaio molto acuto, intelligente, brillante e coraggioso. C’era poi Giovanni Di Mauro, il cui fratello era corrispondente de “L’Unità”, che poi tornerà a Roma. E poi altri ancora. La Vetreria Ricciardi, in pieno funzionamento, era uno spettacolo straordinario! Il proprietario delle Vetrerie Ricciardi era parente di Giancarlo Pajetta e grazie alla sua intercessione, ricorda Di Marino, gli fu possibile vedere le modalità produttive, “il fiume di fuoco e di lava che si trasformava in lastra di vetro”. Una cosa impressionante, con l’altoforno a ciclo continuo che lavorava ventiquattro ore su ventiquattro e che non si poteva spegnere mai, perché altrimenti si procurava una lunghissima fermata del complesso industriale nel suo insieme. Le Vetrerie saranno in seguito divise in due tronconi e parte delle lavorazioni si trasferirà a Napoli, il primo passo verso la definitiva chiusura. A Vietri era allocata anche l’importante tradizione della ceramica, che poi grazie alla straordinaria abilità dei suoi artigiani estenderà la sua fama in tutto il mondo. L’essenziale del nucleo operaio vietrese, ove si radicherà una forte e ramificata presenza comunista, anche diffusa in maniera capillare in  varie altre piccole fabbriche e fabbrichette. A Vietri, grazie a questi forti nuclei operai, per una lunga fase la sinistra conquisterà, e a lungo, l’Amministrazione Comunale. A Cava dei Tirreni c’era la Manifattura Tabacchi. Una giovane donna, Maria, si distingueva per capacità e combattività. A Nocera era allocato un’altro stabilimento delle Cotoniere, così pure ad Angri. A Sarno c’erano infine i canapifici. La forza di Nocera erano le Cotoniere, che lavoravano a ciclo continuo. C’erano poi le aziende conserviere, che erano il grosso come numero, ma qui si svolgeva attività stagionale e discontinua, a differenza delle Cotoniere, dove l’attività produttiva era stabile e costante. Completavano il quadro gli scatolifici. Nell’area dell’agro, la sinistra dimostrava difficoltà a radicarsi anche negli aggregati operai, al punto che si decise di incaricare, da Napoli, Mario Schettini, capace oratore ed assai abile nel lavoro di massa e, grazie al suo contributo, si riuscì finalmente a sfondare, riuscendo a conquistare una significativa presenza organizzata a Nocera e nell’Agro. Nel 1953 si candidò alle elezioni col Pci Luigi Angrisani, un medico di Nocera, che si presentò con la lista del “ Gallo” apparentata col Partito Comunista, e fu eletto Senatore, dopo essere stato eletto sindaco. Figura ambigua e non del tutto limpida. Corruppe in modo subdolo Schettini. Era giovane, sposato ed aveva bisogno di soldi. Angrisani fu incaricato dal Partito di affiancare Schettini per garantirgli tranquillità di vita tale da consentirgli di fare il suo lavoro senza particolari problemi. Angrisani però, col trascorrere del tempo, diede luogo ad un rapporto equivoco. Schettini divenne subordinato ad Angrisani ed alle successive elezioni comunali e provinciali Angrisani pretese dalla Federazione che fossero dati al suo vecchio raggruppamento del “Gallo” quattro o cinque posti garantiti. Richiesta irricevibile! L’assenza di intesa indusse Angrisani al passaggio ai Socialdemocratici. E in questo passaggio trascinò con sé anche Schettini, oramai legato e dipendente in tutto economicamente da Angrisani. A quel punto si aprì una fase di crollo del partito. Fu allora che si riuscì a pescare Amedeo Manzo, promosso sul campo dirigente di Partito. Un coraggio inaudito che indusse a vincere quel timore che ormai circolava tra le fila operaie di Nocera. Si riuscì, con tale mossa, a mantenere i voti, ed in sostanza fu superato di slancio il momento della crisi.

Altro personaggio particolare fu Radetich, profugo slavo che invece, a differenza di Angrisani e di Schettini, rimase nel Partito. Poi a poco a poco si sviluppò una nuova generazione di giovani che, aderendo al Partito, in sostanza, aiutò sensibilmente a superare la fase di difficoltà che la vicenda Angrisani aveva generato. Pietro Amendola era stato inviato a Salerno dalla Direzione del Partito nel 1944, subito dopo la liberazione di Roma, ed arrivò quale commissario, con poteri pieni ed assoluti. Pietro iniziò immediatamente a ritirare tutte le tessere di iscrizione e le dava soltanto a chi gli forniva assoluta garanzia di essere persona seria e militante affidabile. Si registrò un ripulisti pressoché generale.  Poi alla Federazione fu chiamato il gruppo di Eboli, Alinovi, Perrotta, Sparano, Cassese etc, Di Marino e Villani di Salerno, il gruppo di Scafati. Il 1945 accadde un infortunio dovuto ad una strumentalizzazione di una lettera scritta da Pietro Amendola che era allora anche alto Commissario per l’epurazione. Gli si imputò di aver minacciato in questa lettera altri compagni ed anche di aver favorito, nel mentre la legge di allora non lo consentiva, la distribuzione di generi alimentari provenienti dall’Emilia tra i cittadini salernitani. In ogni caso Pietro Amendola fu richiamato a Roma ed al suo posto arrivò Guido Martusciello, avvocato di un’importante famiglia salernitana. Un professionista di grande valore, di prim’ordine che giovanissimo solo pochi anni dopo la laurea vinse il concorso di Cassazionista. Fu il primo in Italia e si trasferì a Roma, dove in precedenza aveva partecipato alla resistenza. Poi aveva conseguito la laurea anche in Chimica. In quell’epoca sapeva che, praticando l’antifascismo attivo, prima o poi avrebbe anche potuto essere costretto ad emigrare. Facendo l’avvocato in italia non avrebbe avuto alcun problema ma all’estero non sarebbe stata la stessa cosa. Per questa ragione prese anche la laurea in chimica, ma professionalmente non gli servì a molto. Nell’azione partigiana di via Rasella fu lui a fornire le bombe che aveva costruito al gruppo dei gap romani. Martusciello faceva il segretario della Federazione in maniera inusuale. Abitava stabilmente a Roma e passava solo pochi giorni della settimana a Salerno. Curiosa la sua idea che le lettere non fossero importanti se non inviate ripetutamente. E non era solito leggerle, ritenendole poco importanti se qualche mittente scriveva una sola volta! Evidentemente trattatasi di cosa di ben poco rilievo, non meritevole di particolare attenzione. Le lettere per lui meritavano di essere lette solo se arrivavano una seconda volta, e soltanto in quel caso. Intanto dal gruppo di organizzazione, diretto da Pietro Secchia, venne inviato a Salerno Michelino Rossi. Era stato membro clandestino del Partito in Tunisia e lì, conclusa la guerra, era stato anche processato. Al ritorno in Italia, dopo pochissimo tempo, fu inviato da Secchia a Salerno, per dare un robusto sostegno organizzativo alla direzione di Martuscelli. Così Michelino divenne il vero costruttore del Partito dal 1946-1947 al 1953, quando, a giudizio della Direzione, ormai si era in condizione di individuare proprio in Gaetano Di Marino la soluzione interna locale per la direzione della Federazione salernitana.   

 Ad Angri c’era Anna Lombardi, la vera dirigente operaia della fabbrica, sposata a Vaccaro. Dati i tempi, era particolarmente significativo ed importante  che alla testa della Commissione Interna ci fosse una donna. Scafati era poi un altro punto significativo e di rilievo. C’era la Manifattura Tabacchi, l’insediamento industriale più rilevante ed era Toscano il più importante dirigente operaio interno. Scafati aveva un’antica tradizione socialista e quando la città si liberò dai tedeschi a furor di popolo l’avvocato Sicignano, di cui si ricordava il passato di antifascista e di socialista che non si era  mai piegato al regime, fu eletto, al suo ritorno, Sindaco.

Carica che ricoprì per 7 o 8 anni. Quando gli Scarlato iniziarono l’azione politica per la conquista del potere da attribuire in modo assoluto alla democrazia Cristiana, anche utilizzando il fatto che il Sindaco e l’Amministrazione avevano adottato qualche delibera non del tutto corretta, lo sostituirono togliendogli l’incarico di Sindaco. Il Vicesindaco era un altro rappresentante della sinistra ma, alle elezioni, Scarlato vinse a mani basse e da allora Scafati divenne feudo pressoché assoluto del gruppo Scarlato. A Sarno c’era un altro punto industriale di una qualche importanza : i canapifici ed era una zona abbastanza ricca. Nella cittadina c’era la presenza di compagni  e di operai ben sperimentati e si avvertiva l’influenza importante degli Amendola. San Marzano e San Valentino erano due paesi dove la sinistra non riusciva mai a raccogliere adesioni o consensi elettorali significativi. Poi si riuscì a vincere anche lì, a San Marzano. La storia dell’altra parte della Provincia vedeva la presenza, a Pontecagnano, di un nucleo bracciantile dove in origine la sinistra non aveva grande peso. Poi si riuscì ad andare avanti, questo in collegamento con le prime lotte contadine e bracciantili. Fu in particolare la lotta per l’occupazione delle terre incolte che consentì al Partito Comunista di entrare in contatto coi contadini e con vasti strati di lavoratori della terra. La riforma agraria portò un nuovo clima, anche contrassegnato da elementi di paura. Coloro i quali avevano avuto assegnate le terre temevano che gliele ritogliessero e, ad un certo punto vinti dalla sfiducia, si ritirarono a vita privata. Poco a poco però ripresero coraggio e si ricreò una situazione migliore e ben più positiva. In questo contesto, in alcune circostanze le forze bracciantili e contadine, tramite le loro organizzazioni politiche e sindacali, ricercarono contatti ed aiuti a Fausto Gullo che era stato Ministro di Grazia e Giustizia che s’impegnò anche personalmente in una causa in difesa di braccianti e contadini della Piana del Sele. In quelle lotte iniziarono a distinguersi Piero Memmi e Giuseppe Lanocita. Memmi era un compagno di origini africane. Proveniva dalla Tunisia ed era molto amico di Michelino Rossi. Aveva capacità organizzative e di comunicazione notevolissime.  Era dotato di grande facilità nell’eloquio e riusciva a mettersi sempre in immediata comunicazione e sintonia con i suoi interlocutori. Pino Lanocita fu incaricato di spalleggiarlo. Ed è allora che inizia l’azione giuridico- legale di Lanocita, che non perde occasione per intentare causa ai latifondisti della Piana del Sele, indagando, in modo puntiglioso, sull’origine della proprietà terriera e portando avanti la tesi secondo cui i proprietari terrieri avevano usurpato quelle terre senza alcun diritto. Anche in tal modo si fornì un’ulteriore impulso all’azione rivendicativa contadina e bracciantile. Restava naturalmente aperto un punto, tutto politico. Per Lanocita era possibile individuare l’origine dei rapporti di proprietà, dei modi in cui si era andato consolidando il sistema, nell’illegalità, fuori e oltre ogni legittimo diritto. La conclusione appariva chiara : gli agrari tutti avevano usurpato la proprietà della terra e con l’azione giuridico-legale si sarebbe, a suo avviso, riusciti a destrutturare il grande potere dei latifondisti. Tesi suggestiva, ma piuttosto discutibile nella sua pratica attuazione. L’esperienza aveva infatti già chiaramente dimostrato come era sì possibile avviare un contenzioso ma che esso, per una miriade inestricabile di difficoltà anche oggettive, quali il reperimento degli atti originari autentici di acquisto o di cessione, finiva per trasformarsi, sempre, in un defaticante contenzioso destinato a durare decenni senza poter produrre alcun pratico risultato né dare una risposta certa alle attese che questa situazione finiva per generare nell’animo di braccianti e contadini. Funzione professionale e dirigenza politica con responsabilità diretta dimostravano, nella pratica, di essere sempre più incompatibili. Non era possibile fare alcuna rivoluzione con le cause e Pino Lanocita finì per optare per la professione. Il Sindacato unitario del 1944- 1945 aveva un ruolo molto forte. Era diretto da Giordano Dall’Ara, emiliano che era stato confinato in un paese della Lucania, in provincia di Potenza. Intelligente e coraggioso per più ragioni si fermò poco tempo a Salerno. Fu allora nominato segretario della Camera del lavoro Feliciano Granati, con il socialista Ciro Formica, il vero responsabile dell’organizzazione. Invece Feliciano Granati fece intendere di essere lui il successore di Dall’Ara. Con la sua brillante eloquenza e simpatia riuscì a diventare ben presto ed effettivamente il numero uno, di fatto oltre che di diritto. E poi il sindacato ebbe un ruolo importantissimo.  Granati aveva una grande personalità ed era capace di affascinare l’uditorio, spesso  però era anche portato ad eccedere in facile demagogia. L’apogeo ed il declino politico di Feliciano Granati coincise con la decisione di sposarsi e di seguire la moglie nel progetto di creazione di una galleria di pittura. Granati era diventato deputato nel 1958 e già allora si mise a comprare quadri iniziando ad avere problemi anche delicati, derivati dal fatto di avere sempre bisogno di danaro per fronteggiare la miriade di impegni in cui veniva a trovarsi nella sua attività. Finiva così che spesso non versava la quota al Partito e ciò gli venne rinfacciato  e questa sua mancanza finì per costituire una delle principali ragioni per cui non venne più riproposto candidato. Rispetto poi alla prima fase, tutta ascendente, del suo impegno politico, Granati iniziava a dimostrare forte disaffezione nell’esercizio delle funzioni che di volta in volta gli erano affidate al punto da sfilacciare i rapporti importanti ed estesi che prima poteva vantare. Poi ad un certo punto, quando non fu più riproposto, accadde che Di Marino, allora dirigente nazionale dell’Alleanza Contadini, fosse indicato quale candidato alla Camera dei deputati. Avrebbe dovuto svolgere un ruolo nazionale dando il proprio contributo di Parlamentare anche a Salerno. Varie forze del Partito di Salerno si erano nel frattempo contemporaneamente impegnate per garantire l’elezione a Tommaso Biamonte. Si creò una seria frattura in quanto la direzione Nazionale non aveva alcuna intenzione di indicare Biamonte tra le priorità da eleggere.  Gaetano Di Marino, Pietro Amendola, il candidato di Avellino, poi Biamonte, questa l’indicazione di priorità gerarchiche nazionalmente definite. L’organizzazione si spaccò e da più parti ci si attivò per cambiare surrettiziamente l’ordine delle preferenze per come in partenza era stato stabilito. Contro le indicazioni, Biamonte risultò il terzo eletto, dopo Pietro Amendola e Di Marino. La scissione nei fatti era compiuta! E il clima ormai aspro e velenoso che si era generato si trascinò per anni. Nel 1970 il nucleo scissionista si riferì al gruppo nazionale del “Manifesto”, che però non accolse tutte le richieste di iscrizione che gli erano pervenute, limitandosi ad accettare soltanto quella di Feliciano Granati. Questa era a giudizio del gruppo degli eretici del “Manifesto” l’unica domanda di adesione politica da prendere in considerazione con favore. Biamonte in quel trambusto valutò di non fare il passo estremo e si tirò indietro all’ultimo momento. Da allora in poi si dovette lavorare alacremente per ricomporre la frattura r ricostruire l’unità del Partito. Col tempo diversi protagonisti di quella vicenda dolorosa si sono poi pentiti, anche sinceramente, rientrando nell’organizzazione comunista.

Dopo l’aspra mobilitazione contro i licenziamenti e lo smantellamento delle industrie si sviluppò la lotta per ottenere i cosiddetti “ cantieri scuola”. Si chiedevano risorse al Ministero del lavoro per costruire una strada, un ponte, un acquedotto, un’opera pubblica  : questi cantieri di lavoro erano pagati con un salario minimo, tra 500 e 1000 lire. La manodopera era assunta per 6 mesi, poi immediatamente licenziata. Al momento della conclusione dei lavori affidati si aprivano, puntualmente, acute tensioni, che spesso sfociavano in dimostrazioni ed occupazioni non di rado aspre e violente, sulla falsariga di ciò che,  negli anni a venire, e fino ad oggi, succederà a Napoli con “le liste di lotta”. Ciò però portò ad introiettare nel movimento a Salerno città, ed anche in qualche altro punto della Provincia, un nucleo ben diverso da quello storico originario della classe operaia industriale. Si trattava in sostanza di nuclei di sottoproletari provenienti dai mestieri più disparati, organizzati in gruppi di pressione. La sinistra, collocata all’opposizione, appoggiava, in sostanza, queste azioni, anche se non intendeva farle sfociare in atti di violenza fine a sé stessa. La contrastata vicenda dei “cantieri scuola” finirà per far confluire nel movimento operaio questo gruppo ex novo, in origine estraneo alla tradizione operaia. Non si trattava di figli di famiglie operaie ma di gruppi di provenienza sottoproletaria, di ceti politicamente e sindacalmente un poco sprovveduti. Varie centinaia di persone che davano luogo, periodicamente, come si è detto, ad agitazioni anche assai aspre. Non sempre comprendevano il carattere democratico della lotta che doveva essere condotta. Non era raro trovare anche, in alcune circostanze, in quei frangenti, personaggi equivoci che si intrufolavano in questi movimenti, anche ibridi, portando oggetti contundenti o addirittura armi. Ciò determinava la necessità di un’attenzione supplementare, del movimento operaio, del sindacato, delle forze di sinistra, non sempre adeguatamente coadiuvate dalla polizia del tempo, per prevenire fatti gravi e delittuosi. Giovanni Fenio, Matteo Ragosta, Saverio Della Rocca, Antonio Lambiase, i capi storici di questi movimenti, che poi si legheranno al partito ed al sindacato, imparando a confrontarsi con gli altri ed a crescere insieme, pur mantenendo la crudezza e l’asprezza originaria della loro storia familiare e formativa. All’occorrenza, se ben diretti, diventavano però anche una straordinaria forza d’urto capace di fronteggiare e gestire con successo situazioni anche molto difficili e scabrose. Sono stati loro, infatti, i primi a difendere la sede della Federazione Comunista salernitana e le sezioni di partito ciclicamente oggetto di tentativi di violenza d’ispirazione fascista. E’ questa la storia degli anni 50, dei primi anni 50, del 53, del 54. Lo scenario è senza dubbio un po’ approssimativo e sbilanciato. E’ in sostanza incentrato in buona parte sulla Federazione di Salerno e la sua storia e non affronta i temi del distorto sviluppo economico e civile della città. Mancano, ad esempio, i rapporti con gli altri partiti, ma è un rapido e stringato tratteggio di figure di costruttori del Partito e del sindacato a Salerno ed in alcuni dei più rilevanti centri della Provincia da arricchire ulteriormente e che può risultare comunque di una qualche utilità. Figure di attivisti e militanti che non vanno dimenticate, a cui vanno aggiunti altri dirigenti di primo piano quali Riccardo Romano a Cava o Oreste Catalano a Scafati, Vincenzo Sparano e Cassese di Eboli, Emilio Sparano a Pontecagnano. In sostanza emerge dai parziali e limitati frammenti di ricordi presenti in questa trattazione la conferma di una percezione e di un’idea secondo cui il Partito ed il Movimento operaio salernitano, pur riconoscendo sempre di esser parte di una grande famiglia più ampia e generale, che aveva un’organizzazione disciplinata, unica e ramificata, a livello regionale e nazionale, erano al contempo assai orgogliosi e gelosi della propria peculiare storia e identità. Ed erano in grado di riferirsi anche a grandi figure di leader politici, ad uomini di forte personalità e prestigio come Giorgio Amendola.

La figura di Giorgio Amendola, col carico di storia e di leggenda che lo circondava, avvolgeva e trascinava. Aveva un carisma straordinario, una forza ed una magia grande. Nel rapporto con gli altri o nella polemica politica non faceva mai ricorso alla diplomazia o alla demagogia, non tentennava mai nei suoi convincimenti, faceva la critica ma, se eri convincente nelle argomentazioni, ti dava però anche il riconoscimento. Nel 1958 Giuseppe Vignola propose Gaetano Di Marino candidato al posto di Martuscelli, nel mentre altri suggerivano Granati. Non c’era accordo sul punto di caduta. Si sarebbe creata una situazione difficile e lacerante. Granati era a quel tempo molto popolare. La cosa, per essere risolta, andava necessariamente trasferita alla direzione del partito. Esisteva sempre la convinzione che in Italia si potesse costruire qualcosa di serio e di profondo, in grado di reggere nel tempo, solo attraverso un partito organizzato ed una lotta vincente ma soltanto mettendo al bando ogni eccesso di personalismo. Bisognava subito stroncare la tendenza alla prassi di creare gruppi e gruppetti tra compagni. La pratica dell’esercizio sistematico dell’unità, costituiva l’unica possibilità di disporre di un grande e rispettato partito con un ruolo sempre più importante e decisivo in Italia. Anche a proposito del giudizio storico su quegli anni spesso ci si dimentica il contesto, di ricordare come il mondo fosse nettamente diviso in due. Non è proprio vero che da un lato ci fosse il regno del male e dall’altro quello della libertà. Basta seguire, ad esempio, ciò che oggi si può conoscere a proposito di quanto è stato fatto da parte americana per far cadere il governo legittimo di Salvatore Allende per essere meno inclini a schematismi facili. Tante le cose atroci fatte in Cile e in molte altre parti dell’America latina e mondo! Cosa sarebbe accaduto senza l’Unione Sovietica? Lenin aveva detto che con la vittoriosa Rivoluzione d’Ottobre l’opera di costruzione del socialismo era stata solo iniziata, altri avrebbero dovuto continuarla. Chi avrebbe potuto vincere la guerra senza la forza decisiva dell’Unione Sovietica, che ha costituito ancora a lungo, anche dopo la guerra, il contrappeso al potere degli USA? Oggi si avverte un forte disequilibrio nei giudizi. Si poteva fare quanto si è fatto mettendosi in contrapposizione, contro l’Unione Sovietica? L’esserci posti in quel modo, avere scelto quella collocazione nel conflitto ci ha consentito la possibilità di una qualche manovra, di ottenere risultati anche importanti per il mondo del lavoro, di difendere e sviluppare la democrazia repubblicana. In ogni caso, tornando alle vicende di Salerno, a richiesta di consiglio, Giorgio Amendola affermò di essere dell’idea che Di Marino, ricoprendo la funzione di deputato, non dovesse fare altro che dare un contributo generale anche a Salerno. Così, insieme ad Emilio Sereni dirigente dell’Alleanza Contadini e responsabile Agrario nazionale, fu eletto vicepresidente del gruppo senatoriale ed in tale ruolo si è potuto interessare di leggi importanti. Ha girato tutta Italia ed è andato più volte all’estero. Se il problema insorto non si affrontava così, come suggeriva Amendola, si risolveva male. Sarebbe stato un suicidio collettivo dell’organizzazione di partito salernitana. Le vicende più dolorose ed i momenti più difficili sono stati rappresentati anzitutto dalla vicenda  dell’Ungheria. La cosa venne gestita male  e portata avanti peggio. I russi erano andati a Praga, poi si erano ritirati. I comunisti salernitani erano contenti e soddisfatti per quell’atto. Poi i sovietici tornano nella capitale ungherese ed arrestano Nagy. Lo processano e lo condannano a morte. In quella occasione Antonio Giolitti manifestò tutta la sua contarietà, insieme a pochi altri tra cui Giuseppe Di Vittorio ed annunciò che votava contro la posizione della direzione. La prima volta che nel Partito con la regola del centralismo democratico si verificava un fatto del genere! Un episodio, gravido di ulteriori conseguenze, che costituì una frattura, ed una cicatrice, mai definitivamente sanata. Ma cosa si poteva concludere esasperando queste posizioni? Confluire nei socialisti, restare sempre di meno, separarsi per non concludere nulla in fin dei conti. Forse si doveva essere più attenti ed equilibrati in una situazione molto delicata in cui avevamo tutti ragione e tutti torto. Aveva ragione Nenni, quando prefigurava per l’Italia la necessità di una grande forza unica della sinistra. Ma si chiedeva un atto di abiura, e ciò era troppo. In occasione dei fatti d’Ungheria, la federazione salernitana fu assaltata da migliaia di persone guidate da gruppi facinorosi di fascisti. In poco tempo si misero insieme, tra Partito e Camera del lavoro, un centinaio di compagni. Giuseppe Amarante si era lanciato avanti per respingere gli aggressori e nel trambusto si era fatto isolare. Ci volle del  bello e del buono per tirarlo indietro e salvarlo dalla violenza aggressiva della calca. La scissione poi del 1967-68 non fu in sé fatto tanto tragico. Forse si è più sbagliato dopo, quando Berlinguer parlerà di strappo e di esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. Eppure forse il segretario comunista avrebbe dovuto essere ancora più conseguente, comprendendo a tempo che in Italia ormai non c’era più lo spazio per mantenere in vita un partito comunista. Si doveva fare in modo di riconoscere che avevamo sbagliato e capire in tempo che in pochi anni sarebbe caduto il muro di Berlino. Il grande errore lo ha fatto pure Craxi, pensando che ormai i comunisti erano politicamente finiti e lui era senz’altro destinato ad essere l’unico capo di un diverso e ben più grande partito socialista. Allora era in procinto di diventare capo del governo. I socialisti non hanno compreso il motivo per cui ancora quel grande partito di Togliatti e Berlinguer continua ad essere una forza importante e che la ragione essenziale è nell’essere rimasti profondamente integrati nella specificità della storia nazionale e dei problemi del movimento dei lavoratori. Oggi però al posto di un Partito organizzato con le sezioni si è diventati un Partito di eletti e non si discute se non occasionalmente e per caso. Non si discute, non si coinvolge, non ci si confronta. E’ il dramma di oggi!

Per quanto riguarda i giornali, nel periodo che è stato ricordato, a Salerno c’era “Il Lavoro”, organo del Partito Socialista. “Unità Proletaria”, poi,  era il giornale locale dei comunisti. C’era inoltre “La Voce Salernitana”. Il giornale era anche utilizzato per stampare manifestini. Prima per fare un volantino era necessaria l’autorizzazione preventiva della Questura. Per poter stampare, il direttore di testata doveva essere iscritto all’associazione della stampa. La richiesta d’iscrizione partita dalla Federazione Comunista fu respinta, nel mentre con una scaltra manovra riuscì ad ottenerla Biamonte.  Fu stampato un volantino in cui si contestava contro Baratta, Cirio e Frasca per il fatto che non pagassero il salario dovuto ai lavoratori conservieri, né retribuissero del dovuto i contadini, né rispettavano i contratti di lavoro. Denunciati e processati. Causa senza facoltà di prova e si dovette ascoltare una sentenza di condanna a 9 mesi di carcere. Tommaso Biamonte sollecitò l’intervento di Menna e Pietro Amendola e la querela fu finalmente ritirata. Tra gli avversari politici, in generale, negli anni che sono stati ricordati non c’erano uomini di grande valore. Ad Avellino c’erano Sullo, De Mita, ed il contenzioso consentiva di per sè rigore e crescita reciproca. In quegli anni i partiti di opposizione saranno sempre più emarginati, ma anche la rappresentanza politica del territorio salernitano a livello nazionale fu poco rilevante.  Solo D’Arezzo venne nominato sottosegretario alle poste quale rappresentante fiduciario, in sede locale, di Fanfani. Ed anche prima nessun esponente fascista aveva assunto un ruolo di rilievo nazionale. Iannelli al massimo sottosegretario alle poste e Telecomunicazioni. Il più simpatico ed intelligente era Mario Parrilli, che a suo tempo aveva fatto  domanda di volontario in Africa. La guerra finì e non partì. Si collegò con Lauro, illudendosi di poterlo governare. Bravo oratore, ma di livello locale. Carmine De Martino era un pò un Berlusconi ante litteram.

Gli elementi che porteranno Carmine De Martino al potere nell’area salernitana sono essenzialmente la grande potenza economica messa in campo per acquisire il più ampio consenso elettorale ( tante le risorse allo scopo impiegate negli anni 50); l’uso spregiudicato del potere politico consolidato  attraverso l’utilizzo delle provvidenze pubbliche della Cassa del Mezzogiorno usate in versione integrativa a quella del potere economico personale. Il sistema di sostegno che trovava in lui il proprio referente era costituito dal settore della tabacchicoltura (Saim), dall’industria casearia, dal credito agrario, nell’edilizia dalla SECER, dalla TEPS nel settore dei trasporti. Questo l’insieme delle principali forze di sostegno economico al De Martino[1]. Le forze sindacali che iniziano faticosamente a strutturarsi sulla base di una qualche autonomia attorno agli anni 50 sono in sostanza  complementari al sistema di potere De Martiniano e dovranno trascorrere degli anni perché riescano a conquistare, insieme ad una propria autonomia, un qualche ruolo bel più centrale ed importante.

In precedenza altra figura di rilievo, nel pieno del periodo fascista, era stato Mario Iannelli, che aveva ricoperto dal 1935 al 1943 il ruolo di Sottosegretario  alle Comunicazioni , un tempo a sua volta interessato al controllo della SAIM, segretario comunale ed uomo chiave nell’amministrazione delle risorse seguite all’alluvione del 1954. De Martino in ogni caso  raccoglie attorno a sè  la classe produttiva locale  e le fa assumere rilevanti ruoli amministrativi.

Alfonso Menna era un uomo intelligente, ma la sua strategia di sviluppo della città alla fine si è rivelata un fallimento. Matteo Lucani fa il Teatro Verdi, Via Roma e Corso Garibaldi. Poi il Fascismo produce cose importanti nell’assetto urbanistico, ma tutti i servizi d’impatto pubblico li colloca  al centro. Per espandersi ci si arrampica così sulla collina. La borghesia va a Sala Abbagnano, Piazza San Francesco  etc. Tutto il resto è strozzato. Via Irno poteva essere allargata ma tutto l’area era di Florio, presidente della Camera di Commercio e di pochi altri. E ciò finirà per impedire un ampliamento razionale, che invece si sarebbe potuto realizzare. Conseguenze ovvie sulla qualità dello sviluppo economico. Al centro il porto turistico, quello commerciale all’altezza dell’area di Battipaglia, anche in relazione all’ovvia constatazione che il poco che è rimasto di attività industriale e produttiva è collocato in quella parte di area territoriale. Le contraddizioni di uno sviluppo contraddittorio e convulso le cui conseguenze si possono osservare ancora più nitidamente oggi.

 


[1] Il professore Salvatore Casillo, concordando con tale giudizio, in altra circostanza a tal proposito ricorderà come “Attorno a De Martino cominciò  a crearsi lo schieramento di gran parte della borghesia imprenditoriale, per lo più conserviera ed edile, che vedeva i propri interessi salvaguardati e rispecchiati nel leader  nascente”. Ed in tal senso, per completare il quadro, cita Domenico Florio, Tommaso Prudenza, Primo Baratta, Silvestro Crudele, Alfonso Cuomo, Mario Ferraiolo, Marcantonio Ferro.